Poema per un matrimonio ebraico a Venezia
Massimo è veneziano, vive a Londra, di professione è economista, gioca a tennis, sefardita da entrambi i genitori; la famiglia paterna duecento anni fa emigrò da Corfù a Venezia.
Victoria, londinese da due generazioni, medico endocrinologo, è mora, alta e atletica, ama la musica e la lettura. Suo padre è sefardita di origine yemenita, di Aden, mentre sua madre è ashkenazita di origine russo-polacca, .
Victoria e Massimo si sono conosciuti attraverso un sito internet di giovani ebrei ed hanno deciso di sposarsi nella Schola Spagnola del Ghetto di Venezia. Hanno festeggiato le nozze con duecento persone, parenti ed amici, venuti da tutto il mondo e di varie etnie e nazionalità.
La celebrazione, preceduta da riunioni famigliari rituali, è stata intensa ed emozionante e si è svolta sotto la tenda baldacchino nuziale, al centro del Tempio. La sposa aveva il volto ornato di henné, la terra rossa. La sposo ha alzato il velo della sposa per accertarsi della sua identità ( secondo la tradizione biblica) e poi le ha rivolto l’augurio “che tu divenga migliaia di volti!” . La sposa ha girato sette volte intorno allo sposo. Le sette benedizioni sono state invocate da altrettanti congiunti. Al termine del rito lo sposo, davanti alla Tora e abbracciato dai benedicenti, ha spezzato con il piede il calice da cui entrambi avevano bevuto il vino. Il gesto ha più significati, il principale è in ricordo della distruzione del Tempio. E’ esplosa quindi una grande gioia di tutti i presenti che ha fatto risuonare la Sinagoga con canti e balli ed il lancio tradizionale di sale, grano, noci. La festa è proseguita con un clamoroso corteo nuziale lungo la fondamenta di Cannaregio, fino al battello che attendeva gli invitati per portarli al banchetto al Lido.
Il poema, dedicato alle nozze, parte dall’incontro tramite internet, prosegue nel dialogo d’amore, dove i due si svelano gradualmente, anche nei nomi espressi in maniera criptica, e si conclude con il rito nuziale. Alcune frasi, pronunciate dalla sposa in una lingua inesistente, echeggiano l’aspetto misterioso della conoscenza d’amore.
Venezia
Campo del Gheto Vecio
quattordici settembre duemilaotto
La sposa Lo sposo
La rete s’irradia e redige
elettrici rami raccorda
rivela ragni raggianti
arrossa segrete paure
rimena rosati ricordi
parole ruggenti attraversa
Navigo pizzico istigo
smorzo capto tronco
clicco batto stoppo
Ho spento l’ultima lampada
al buio la vista è più acuta
e fiuta nell’etere lungo
segnali di amore che spero
Virtuale è il messaggio che lancio
con favole lucciole e scherzi
lo affido al frusciare del vento
che muove invisibili onde
Parole intriganti intercetto
echeggio beffando chi scrive
non taglio il colloquio iniziato
avverto un idioma comune
Diritto e rovescio
colpisco la palla
dimeno racchetta
saltello ed oscillo
sgambetto ed ammicco
ribatto ed esulto
Màladin òdine dùla
Gòline gùia galìda
Sàfane sèfe filòia
Rispondo al tuo canto col ballo
beccheggio di braccia e di collo
poi tento il gorgheggio e fallisco
Hagàrane vòlutze vel
I numeri elaboro e studio
discorro in tutte le lingue
ma non ti comprendo nei suoni
Ingenuo dagli occhi indaganti
io volo su monti e deserti
radici lontane ho nei sensi
ed abito intense fragranze
Al massimo ho teso le forze
per sciogliere enigmi maliardi
chi sei tu che poni la sfida?
All’aquila strappo vittoria
colombe lenisco di unguenti
risano con tocchi di incenso
boccioli feriti dal freddo
La casa mia ha bianche pareti
col sole trafiggo le brume
trasporto l’odore del mare
da dove mi parli nascosta?
Il nido ha il calore del legno
torpore di antichi velluti
tendaggi nell’intima stanza
difficile entrare quassù
Ho febbre che voglio incontrarti
raggiungerti dove tu regni
conoscere i gesti tuoi in grazia
ti immagino in manto di giada
Discendo un sentiero di sassi
mi oriento tra nebbie e paludi
affronto tempesta notturna
ma il viso mantengo velato
E’ mediterranea la rotta
partita da isole calde
in cerca di un dono prezioso
palesati almeno in colore!
Potrei esser bionda ma mora
incarno il silenzio di steppa
ho il fuoco di un porto vulcano
l’accento che il mondo districa
Ti attendo in canzone al tramonto
nel flauto di larga laguna
tra bifore marmi e gerani
si apre l’abbraccio di un campo
Da lente anse del fiume
il battito interno è impaziente
miraggio l’incrocio di sguardi
l’unione di dita un sigillo
Notte va’ adagio nei soffi
riparaci lieta nell’ombra
circondaci col tuo profumo
sospendi i rintocchi dell’alba
Màladin òdine dùla
Sparsi nel globo
crescono gli alberi
diverse le foglie
da un’unica linfa
Gòline gùia galìda
Provengono tutti
da eletta semenza
accesa sul monte
dal patto di pietra
Sàfane sèfe filòia
Spezzato il calice
nel bianco di tenda
rubino è ornata
la fronte di terra
Sale grano noci
volatili e pesci
che tu divenga
migliaia di volti
Hagàrane vòlutze vel
Sette volte si alza la mano
la legge purifica e avvolge
la cesta dei corpi intrecciati
è già benedetta dall’alto