La tivù di Bernabei
Il pubblico bisogna servirlo
da maggiordomi in livrea
ma senza ingozzarlo di cibo
rifritto e speziato da fiera
con chiare parole in vassoio
allegri biscotti croccanti
che lascino in bocca il sapore
del mondo distante e vicino
barlume di un altro orizzonte
Per un certo verso di antoniobruni.it dalla rivista di Rai Senior Nuova Armonia, diretta da Umberto Casella, settembre 2016 scarica il pdf a sx
Ettore Bernabei: una grande squadra di lunga durata
In un pomeriggio noioso del luglio 67, Carlo Fuscagni, che mi aveva intervistato come studente impegnato nei giornali giovanili, mi chiamò per sostituire un redattore di Cordialmente, un settimanale televisivo di attualità e di dialogo con il pubblico, diretto da Andrea Barbato e Gian Paolo Cresci. Mi trovai così improvvisamente a lavorare nella tv di Bernabei. Era una grande squadra molto affiatata. Non lo conobbi direttamente (questo avvenne anni dopo la sua uscita dalla Rai) ma avvertivo, attraverso la struttura, l‘attenzione costante alla qualità di ciò che andava in onda. Persona molto riservata, lavorava nell’ombra; è rara la sua firma su comunicazioni aziendali.
Le redazioni dei programmi culturali erano situate nel piano attico della palazzina Persichetti a lato di via Teulada. Negli altri piani c’era il complesso cinematografico (cineoperatori, moviole di montaggio, sonorizzazioni). L’attività era intensa. Da pochi anni era stato inaugurato il secondo canale e lo spazio televisivo cresceva continuamente. La Rai assorbiva con contratti lampo le maestranze qualificate del cinema, che stavano per perdere lavoro per la crisi di Cinecittà, dopo l’esplosione del neorealismo. Mi entusiasmò entrare in contatto con scrittori e personalità, prima seguite da lontano; per le interviste cercavamo persone di competenza e prestigio. Nel 1969 entrai stabilmente nella Direzione dei Programmi Culturali, affidata a Fabiano Fabiani, Emmanuele Milano, Brando Giordani, Furio Colombo, Enrico Manca e con Valerio Ochetto, Maro Francini, Fulvio Rocco. S’investiva molto in programmi di storia, arte, scienza, religione, letteratura, gruppi sociali. Si vedevano gli interni di scuole, fabbriche, abitazioni private, città e paesi. La gente comune parlava a lungo di sé. La Rai mostrava l’Italia reale.
Gli anni sessanta furono il periodo del dominio in Italia della tv pubblica, allora in monopolio, un’egemonia culturale che incrementò l’alfabetizzazione e l’unificazione linguistica del paese. Bernabei, nei tredici anni della sua incontrastata direzione, fece della Rai un grattacielo partendo da un piccolo edificio. S’impegnò nell‘invenzione di nuovi programmi che coniugassero la fruizione del grande pubblico con la diffusione di valori civili. Fu molto attento alla selezione del personale. Capì che la forza di un’industria culturale dipendeva dal suo capitale umano più che dagli impianti tecnici. Gli elementi vincenti di un’azienda che produce idee sono la cultura, la professionalità e l’intelligenza dei suoi operatori. Bernabei rastrellò gli elementi migliori del paese. Svuotò Firenze, la sua città, che allora era ricca d‘intellettuali in fermento e li portò con sé a Roma. La tivù cominciò a parlare il tosco-romano, che divenne comprensibile in tutte le zone del paese, anche quelle irriducibilmente dialettali. Assunse in Rai le firme migliori del quotidiano Il Giornale dei Mattino, di Firenze, che lui aveva diretto giovanissimo: Uberto Fedi, suo mentore e poi braccio destro, Silvano Giannelli, Hombert Bianchi, Vittorio Citterich, Piergiorgio Branzi, Mario Novi. Si circondò di fedelissimi, non esecutori ma persone di livello con cui era in sintonia. Politicamente era molto vicino ad Amintore Fanfani, alla Democrazia Cristiana e al mondo cattolico ma fu abile nel coinvolgere persone di orientamento diverso, collocabili nella sinistra del paese che allora egemonizzava l’opposizione al governo.
Sapeva concedere spazi, sia pur ben delimitati, di espressione al dissenso; talvolta andava in onda qualche trasgressione politica e di costume, tollerata e riassorbita. L’importante era interpretare l’intera società italiana. Non ci furono discriminazioni ideologiche nei confronti di artisti e intellettuali. Solo con Dario Fo fu intransigente. Persone molto vicine al Partito Comunista come Mario Motta, Angelo Romanò e Angelo Guglielmi ebbero incarichi di alta responsabilità nelle direzioni dei programmi. Bernabei sceglieva i dirigenti basandosi essenzialmente sulle loro qualità professionali. Sapeva collocarli nel posto giusto. C’erano spazi interni di autonomia e di funzionalità rispetto alla costante pressione del potere politico. L’ideazione dei programmi era interna all’azienda, pur integrata sempre da apporti esterni, e questo fu il perno della sua architettura. La capacità produttiva, che non copiava formati commerciali, rese la Rai una delle migliori aziende mondiali di radio e televisione, non solo tra quelle di servizio pubblico. L’ossatura umana, lo stile di lavoro, la fedeltà all’azienda, elementi costruiti da Ettore Bernabei, furono il motore unificante della Rai fino alla fine degli anni novanta.